Il bilancio con l’obbligo di pareggio e il berlusconismo di Monti

Vi riporto il testo di un articolo pubblicato sul bollettino di Lavoro Societa’ – CGIL

Il bilancio con l’obbligo di pareggio e il berlusconismo di Monti
Poco si parla di una cosa che il Governo Monti sta portando avanti con il consenso del Parlamento, con molta velocità e in perfetta continuità con Berlusconi: si tratta della modifica della Costituzione che stabilisce l’obbligo del pareggio di bilancio. In sintesi si potrebbe dire che si vuole rendere incostituzionale Keynes. Dire che è obbligatorio il pareggio significa dire che nel rapporto fra entrate e uscite le entrate devono superare le uscite almeno della cifra corrispondente agli interessi dei debiti e alla quota degli stessi debiti che eventualmente vanno restituiti nel corso dell’anno. In sostanza rende costituzionalmente obbligatoria una manovra di alcune decine di miliardi di euro ogni anno in termini di aumento delle imposte o di tagli della spesa. Vista da un altro punto di vista si può dire che si stabilisce un ordine di priorità fra cittadini e creditori dello stato: prima vengono i creditori, poi i cittadini. Come noto i creditori dello stato italiano, in termini di valore del credito sono per oltre l’85% istituzioni finanziarie di vario tipo, per oltre il 40% collocate all’estero. Solo la parte restante sono famiglie residenti in Italia; peraltro in questa categoria rientrano poveri e ricchi. In sostanza se, come ha intenzione di fare anche il Governo Monti, si tagliano le pensioni per garantire il pareggio di bilancio vuol dire che si trasferiscono miliardi di euro dalle tasche dei lavoratori che pagano i contributi o dei pensionati che non vedono aumentare le loro pensioni alle istituzioni finanziarie che sono creditrici dello stato. Naturalmente lo stesso si può dire di eventuali fondi destinati ad attività produttive, si preferisce il pareggio di bilancio allo sviluppo; per usare la furbesca terminologia di Monti si preferisce il rigore rispetto allo sviluppo. Si costituzionalizzano e si rendono permanenti manovre di fatto recessive, impedendo l’altra via che permette di rientrare nel debito che è quella del contributo pubblico allo sviluppo. E’ un principio che toglie al Governo uno strumento fondamentale, quello del debito, magari da usare momentaneamente. Se è obbligatorio il pareggio di bilancio è evidente che i Governi non possono scegliere e se non è possibile scegliere si riduce lo spazio per la politica e la democrazia. C’è chi dice che di fatto è già così in Costituzione, ma, a parte la facile obiezione che se è già così non si capisce il perché di queste modifiche, c’è il collegamento con l’Unione Europea che pesa. Si tratta dell’inserimento in Costituzione del riferimento all’Unione Europea, e per questa via della costituzionalizzazione dell’obbligo di rispettare decisioni economiche stabilite ad un livello dove la democrazia non arriva e dove dominano l’ideologia liberista e, allo stato attuale, i governi di centro destra. Si parla di sanzioni automatiche a chi non rispetta le decisioni. E’ una modifica sostanziale quindi e non solo formale. Se l’Europa decide, cioè i Governi nazionali, in particolare quelli tedesco e francese, senza una verifica democratica, possono bastare accordi appunto fra stati (secondo qualcuno anche accordi bilaterali) per imporre limiti all’azione economica. La regola è talmente rigida che non solo va stabilito con legge quali sono gli eventi che possono determinare le eccezioni (grave recessione economica ed eventi disastrosi), ma addirittura un’eventuale eccezione va votata con una maggioranza qualificata superiore alla metà dei componenti delle Camere, la stessa prevista per un cambiamento della Costituzione. Inoltre tale principio vale per tutte le amministrazioni pubbliche, anche per quelle locali, attribuendo allo Stato il potere esclusivo di decidere in questo campo; alla faccia del federalismo. Si può pensare che dopo una “riforma” di questo tipo continuino ad avere valore altri principi contenuti in Costituzione, riferiti ai servizi che lo Stato deve fornire e che fanno parte dei diritti di cittadinanza, se tali servizi da diritti vengono declassati a costi subordinati alla garanzia da dare ai creditori?
Tale riforma costituzionale presentata con la firma di deputati del PD, dell’IDV, del PDL è già stata approvata in pochissimi giorni sia alla Camera dei Deputati sia al Senato, tutti i gruppi hanno votato a favore e le astensioni sono di pochi singoli parlamentari (rispettivamente 11 e 14). Il tutto è avvenuto nel silenzio più assoluto, anche perché è stato fatto in contemporanea con la votazione della manovra. In entrambi i casi i voti favorevoli hanno superato i due terzi dei componenti e questo vuol dire che se avverrà così anche in seconda lettura, fra almeno 3 mesi, non si potrà nemmeno far votare i cittadini con un referendum confermativo. Se non ci si attiverà, la modifica della Costituzione passerà senza colpo ferire.
In CGIL è uscito solo un breve commento che si limita a richiamare un giudizio dato a settembre che nella sostanza parla di norme pasticciate. E’ una sottovalutazione, sono norme molto precise e comunque non c’è dubbio che questo Governo le attuerebbe nella forma più dura e con la massima celerità. Già ora si parla di introdurre una legge che impedisca di incrementare la spesa pubblica di una percentuale superiore alla metà dell’aumento reale del PIL (al netto dell’inflazione). In questo caso si tratterebbe di una restrizione aggiuntiva a quella del pareggio del bilancio; in presenza di una recessione, come sicuramente avverrà nel 2012, questo significa ridurre la spesa pubblica in termini reali e forse anche in cifra assoluta.
Dobbiamo sempre ricordare che quasi tutta la spesa pubblica è fatta da previdenza, assistenza, sanità e stipendi dei pubblici dipendenti.
Bisogna attivarsi per riuscire a rendere tutti consapevoli dei reali effetti di tale modifica della Costituzione. Ci sono due modi, uno è lo scioglimento del Parlamento e le elezioni anticipate. L’altra via è creare un movimento di opinione che costringa i parlamentari e i partiti ad un dibattito spingendo una parte di essi almeno ad evitare una maggioranza dei due terzi e quindi poter raccogliere le firme per far votare i cittadini in un referendum confermativo.
La CGIL deve uscire dal suo silenzio e porsi alla testa di questo movimento di opinione. In particolare la categoria dei pubblici dipendenti deve spingere in questa direzione, l’alternativa è l’avvio del processo di progressiva cancellazione del settore pubblico nel nostro paese.
18/12/2011
Gianni Paoletti

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